Aspetti psicologici

Secondo Proulx [2003], in caso di incendio, gli individui dopo un allarme occupano fino a due terzi del tempo che si impiega per uscire dall’edificio in attività non rivolte all’evacuazione e in media impiegano tre minuti prima di lasciare un edificio residenziale. È come se ci fosse un’inclinazione a voler “definire” la situazione (è reale? è seria?) prima di “rispondere”. In questa prospettiva, i contributi teorici l’evacuazione in emergenza come un allontanamento forzato da un luogo pubblico potenzialmente pericoloso, facendo riferimento ai modelli del problem solving e del decision making: la persona deve prendere delle decisioni e svolgere delle azioni al fine di risolvere il problema raggiungendo un area sicura.

In una situazione di minaccia, le persone si rappresentano il problema e interpretano l’informazione che hanno sul pericolo che può essere di vari tipi, ad esempio in caso di incendio il fumo o un allarme sonoro. Queste informazioni sono ambigue oltre che inusuali e inattese: un semplice allarme sonoro potrebbe confondersi con altri o essere travisato perchè allerta senza informare precisamente sul pericolo e sulle azioni da fare. Successivamente, gli individui possono prendere varie decisioni: ignorare questi segnali continuando le normali attività perchè si pensa che non sia reale o grave o si pensa che altri si assumano le responsabilità, oppure ancora ricercando ulteriori informazioni muovendosi, osservando e chiedendo ad altri. È bene tuttavia ricordare che i processi decisionali nelle situazioni di emergenza sono diversi da quelli che abbiamo nella vita quotidiana per due ragioni: in primo luogo la decisione riguarda la sopravvivenza della persona o dei suoi cari, in secondo luogo vi è un’urgenza e scarsità di tempo a disposizione per fare scelte prima che siano perse delle opzioni cruciali.

Gli studi in questo ambito hanno mostrato come i processi decisionali diventano più fallaci, perché alcune informazioni o alternative sono trascurate, ci si focalizza su pochi elementi facendo ricorso ad euristiche per semplificare la comprensione del problema e si prendono decisioni che siano “sufficientemente buone”. In condizioni di pressione temporale poi gli individui prendono decisioni usando meno informazioni a disposizione, accentuando gli aspetti negativi di un’opzione, scartandola subito se risulta inappropriata all’apparenza, e facendo comunque scelte meno rischiose.

La ricerca psicologica che ha avuto l’obiettivo di indagare la fuga e l’evacuazione di una persona in un contesto pericoloso come un incendio ha preso a prestito costrutti psicologici dalla psicologia cognitiva alla psicologia sociale. E’ noto che spesso le persone non interpretano correttamente i segni di pericolo e possono trascurare indicatori o avvertimenti iniziali di un pericolo o assimilarli a esperienze normali per una tendenza a pensare che accadano solo eventi positivi. Un filone di ricerche ha messo a fuoco la tendenza a ricorrere a azioni abitudinarie, conosciute, familiari, routinarie particolarmente accentuata in emergenza. Si è visto che durante una fuga la maggioranza delle persone tende ad uscire dalla porta in cui si è entrati, e questo è vero anche quando le uscite di emergenza sono ben segnalate.

Questo accade negli incendi in edifici o quando si deve evacuare da un aereo [Muir e coll., 1996]. Ciò ovviamente varia in base alla situazione specifica, poiché è possibile che le uscite più vicine siano inaccessibili (a causa di un elevato numero di persone di fronte ad esse che ne impedisce l’utilizzo) o impraticabili (danneggiate o avvolte dalle fiamme). Altri studi si sono concentrati sul concetto di “attaccamento”, in particolare a persone, animali o cose osservando che molte persone durante un evacuazione si preoccupano di recuperare i propri beni personali (documenti, soldi, chiavi di casa, medicinali) anche se ciò rallenta o ostacola la fuga. In caso di incendio si è visto che le persone tendono a ritardare l’evacuazione negli ambienti familiari come la propria abitazione rispetto agli ambienti non familiari come un cinema o una discoteca: ciò può essere dovuto ad una attaccamento verso la proprietà oltre che ad una maggiore percezione di sicurezza che si ha quando si è in casa propria, in quanto luogo simbolico di protezione e assenza di minaccia.

La psicologia sociale, d’altro, canto ha invece dato peso alle interazioni sociali e ai processi di influenza sociale nella percezione di un pericolo e nella decisione di evacuare. Gli esperimenti di Latané e Darley negli anni ’60 hanno reso evidente che l’intervento in emergenza è l’esito di un processo di confronto sociale in cui si osservano e si interpretano le risposte altrui al fine di prendere un decisione. Nel loro famoso esperimento del fumo in una stanza, il soggetto se era da solo usciva a chiamare qualcuno nel 75% de casi, se era invece con altri 2 uscia nel 38% dei casi e nel caso di due complici passivi la percentuale scendeva al 10%. La presenza di altri e i loro comportamenti influenza la percezione e la risposta alla minaccia e in situazioni socialmente ambigue (il pericolo è reale o no?) le decisioni individuali fossero soggette ad influenza sociale di tipo informazionale e al fenomeno dell’ “ignoranza pluralistica” e della diffusione di responsabilità.

L’espressione inglese “milling” indica proprio l’interazione sociale nelle prime fasi di allarme caratterizzata da azioni come girovagare e guardarsi intorno. Gli individui verificano e cercano una conferma con le altre persone (amici, colleghi, familiari) della gravità del messaggio o dell’ avvertimento che hanno ricevuto; se il network sociale, in particolare fonti percepite come fidate e autorevoli (ad es., un leader, un responsabile della sicurezza) conferma la validità dell’avviso, è più probabile che si attuino azioni protettive. Spesso i test standard di sicurezza negli edifici o nei mezzi di trasporto danno per scontato che ogni persona sia un’entità individuale, che non sia socialmente interconnesso con gli altri. In realtà, su un treno o aereo in un hotel, una buona parte delle persone sta con almeno con un collega, un amico o un familiare. A tal proposito, Johnson et al. (1994) hanno analizzato i comportamenti di evacuazione durante un incendio in un hotel in cui sono morte 165 persone. Nella notte dell’incendio vi erano alloggiati nelle varie stanze 2500 clienti, in particolar modo si trattava di coppie di sposi o di fidanzati o di gruppi di persone conoscenti, quindi legati da relazioni sociali significative. È stato notato che l’evacuazione non è stata di tipo individualistico ma che i clienti sono fuggiti comportandosi come membri di un gruppo, spesso esitando nella fuga per assicurarsi che i loro cari li stessero seguendo. Le persone che non avevano legami sociali sono state più rapide nella risposta agli stimoli ambigui di pericolo (es. fumo) e nessuno si è ferito.

Questi risultati di ricerca paradossalmente mettono in luce un doppio effetto delle interazioni sociali sulla sopravvivenza nella fuga: se da un lato le persone con legami sociali e affettivi nelle situazioni di pericolo possono aiutarsi vicendevolmente e portarsi in salvo, dall’altra i legami sociali possono avere conseguenze fatali poiché riducono la percezione del rischio e ritardano l’evacuazione. Possiamo concludere che le decisione di allontanarsi da un pericolo dipende da un molteplicità di fattori psicosociali. In uno studio di Riad et al. [1999] sono stati intervistati 777 cittadini che abitano in aree devastate da due uragani ed è risultato che il 58% non aveva lasciato la propria abitazione. Andando a indagare le tipologie di persone che si erano rifiutati di evacuare e le motivazioni alla base, sono emerse categorie diverse di variabili predittrici: in primo luogo la percezione di gravità dell’evento e l’idea che la propria casa fosse il posto “più sicuro”; in secondo luogo la “territorialità”, ovvero la convinzione di dover proteggere la propria casa e il timore di “sciacallaggi”; in terzo luogo fattori sociali come il bisogno di affiliazione (le donne e gli adulti che abitavano da soli erano più propensi ad evacuare), il sostegno sociale (più sostegno sociale, maggiore probabilità di evacuare) ma anche l’esperienza passata poiché chi aveva già evacuato in precedenza tendeva a rifarlo avendo già acquisito un repertorio comportamentale su “cosa” e “come” fare.

Pupils evacuation from school building flat color vector illustration. Students and staff emergency leaving. Kids follows escape route 2D cartoon characters with educational facility on background

Le ricerche sui comportamenti collettivi rilevati in queste situazioni portano a risultati tutto sommato abbastanza coerenti come evidenziato dalla mole di ricerche provenente da ricercatori come Quarantelli, Dynes, Pelanda e altri del suo team presso il Disaster Research Center dell’Università di Delaware [Dynes, De Marchi, Pelanda 1987]. La reazione collettiva ad un disastro è generalmente positiva nel senso che le persone non sono paralizzate ma cercano attivamente informazioni e mettono in atto comportamenti adattivi. Secondo Turner e Killian [1972] un disastro crea una situazione di incertezza per cui le persone si rivolgono fra loro allo scopo di colmare la mancanza di informazioni: si formano così reti di comunicazione informale qualitativamente diversi dalle reti esistenti in un periodo di normalità poiché non rispettano più la divisione sulla base dei gruppi. L’interazione fra persone che non si conoscono tra loro diviene la base per la definizione collettiva di una situazione ambigua, per la formulazione di una giustificazione nei confronti di un particolare corso di azioni e per porre i presupposti di norme emergenti. Non solo l’interazione ma anche le comunicazioni dei leader e dei mass media assumono un’importanza rilevante in una situazione di incertezza. In questo clima di incertezza le strategie di coping collettive sono attive e volte ad aiutare gli altri, in primis gli aiuti diretti prima ai familiari, agli amici, vicini ed alla fine agli sconosciuti; le primissime attività di soccorso e di aiuto, infatti, sono generalmente realizzate dalle stesse vittime sopravvissute all’evento.

In termini di comportamento emergente, ossia che prende forma nella situazione di disastro ed è discontinuo rispetto alla situazione di routine, si può parlare soprattutto di comportamento prosociale piuttosto che antisociale. Alcuni studiosi come Rodríguez, Trainor, Quarantelli [2007] hanno ricostruito e analizzato i comportamenti collettivi tra le persone colpite dall’uragano Katrina descritti dai media come altamente disordinati e antisociali, con episodi di sciacallagi, saccheggi o stupri mostrando un quadro diverso. Da analisi qualitative effettuate è emerso che i saccheggi erano in parte compiuti da gang locali che si dedicavano a furti abitualmente già prima del disastro mentre un’altra parte dei saccheggi sono, invece, da considerarsi azioni prosociali in quanto sono consistite nel prelevare beni necessari per i bisogni immediati per sé ed altri. Inoltre nelle poche occasioni in cui vi sono comportamenti criminali si è scoperto che spesso gli autori sono membri esterni alla comunità [Quarantelli 1985]. Tuttavia notizie false sulla diffusione di panico possono rendere estremamente difficile l’evacuazione dalle case ed impegnare l’opera preziosa delle forze dell’ordine in altre attività rispetto a quelle della gestione del traffico e facilitazione dell’arrivo sul posto dei soccorritori.

Le reazioni collettive di panico sono, come nel caso dei comportamenti antisociali, estremamente rare. Il panico di massa può essere definito comportamento collettivo in cui le capacità di giudizio e ragionamento sono deteriorate, in cui vi sono emozioni forti di paura e in cui vi è un comportamento (solitamente fuga) che può risultare in azioni autodistruttive o eterodistruttive. Gli studi hanno evidenziato che il panico collettivo può essere suscitato dalla presenza simultanea di alcune condizioni. Santoianni [1996], per esempio, ne elenca quattro. Primo vi è un’ansietà diffusa precedente al disastro, per esempio sotto forma di previsione che possa presentarsi un pericolo reale o come informazione da fonti autorevoli. Secondo vi è una mancanza di una leadership riconoscibile e che sappia dare istruzioni chiare (per esempio quali comportamenti protettivi assumere). Terzo e più importante, vi è la percezione di rimanere intrappolati per lo sbarramento dell’unica via di fuga: vi deve essere la percezione che la via di fuga sia l’unica speranza di salvezza e che tale opportunità si stia velocemente esaurendo. Quarto vi è la comparsa di un fattore precipitante dell’ansia. Dal momento che la combinazione di queste condizioni è rara il panico di massa lo è altrettanto e quando avviene coinvolge solo una piccola minoranza, non è contagioso ed è di breve durata.

Uno studio etnografico del comportamento delle persone del napoletano al terremoto del 1980 ha evidenziato che, diversamente dalle ricerche internazionali, le reazioni di panico erano abbastanza frequenti. Tuttavia i casi di comportamento totalmente irrazionale non sono durati più di decine di secondi, anche se hanno portato le persone a ferirsi. Negli altri casi l’elevata ansia, invece, ha permesso comportamenti di fuga adattivi [Alexander 1990]. Ricerche retrospettive sui comportamenti di evacuazione durante incendi in un locale notturno ma anche quelle più recenti durante l’attentato terroristico nella metropolitana di Londra del 2005 hanno evidenziato che nonostante le forti emozioni e il pericolo per l’incolumità la maggior parte delle persone è uscita in modo ordinato e senza competizione [Drury e Cocking , 2007].

La convinzione che le persone durante i disastri esibiscano primariamente panico di massa è molto diffusa anche tra chi si occupa di emergenze perché è parte della tradizione “irrazionalistica” della psicologia della folla che assume che in una massa di persone, le emozioni travolgano il ragionamento, l’identità collettiva sia frammentata e i comportamenti siano fondamentalmente egoistici (come spingere o calpestare) e non regolati da norme specifiche ma suscettibili a pura imitazione [Auf der Heide 2004]. Il modello del panico di massa è stato criticato da numerosi autori tra cui Mawson [2006] che ha proposto un modello alternativo chiamato affiliativo o dell’attaccamento sociale che si basa sulla natura fondamentalmente gregaria e affiliativa dell’essere umano. La fuga può essere considerata l’altra faccia della medaglia del comportamento affiliativo, ovvero un aspetto di una generale risposta che include il movimento lontano dal pericolo e un avvicinamento verso luoghi o persone familiari. E’ quindi un movimento verso e non solo via da. Secondo la teoria dell’attaccamento le persone fin da bambini tendono a rivolgersi alla figure di attaccamento affettivo nelle situazioni di stress e pericolo. Analogamente nei disastri collettivi, prevale una risposta “fuggi e affiliati” che dipende non solo dalla percezione del pericolo ma anche dal contesto sociale, cioè dall’accesso agli elementi familiari. La presenza stessa di persone familiari influenza la percezione e la risposta al pericolo, in quanto la paura è ridotta dalla prossimità delle figure di attaccamento. In linea con queste premesse, lo studioso elabora un modello di tipologie di comportamenti individuali e collettive nelle situazioni di minaccia, che tiene presente sia del livello di percezione del pericolo fisico (fattori precipitanti) che del livello di sostegno familiare/sociale disponibile nella situazione (fattori predisponenti). Se questo modello da una parte spiega la tendenza a rimanere nella struttura se un incendio avviene in un luogo conosciuto come la casa piuttosto che sconosciuto o pubblico come una discoteca, dall’altra non spiega come mai nelle situazioni di pericolo anche elevato ci siano persone disposte ad aiutare degli sconosciuti magari mettendo a rischio la propria incolumità.

Un ultimo approccio teorico che si aggancia invece alle teorie dell’identità sociale e della categorizzazione di sé, proposta da Drury e Cocking [2007] enfatizza ancora di più la componente sociale soffermandosi sul ruolo dell’appartenenza di gruppo e sull’identità generata nel contesto dell’emergenza. In questa prospettiva i disastri possono creare una identità comune sulla base del “destino comune” (“la sensazione di stare sulla stessa barca”) e paradossalmente l’aumento della percezione di minaccia potrebbe generare un categorizzazione sovraordinata tra persone sconosciute coinvolte e tale senso di appartenenza sarebbe alla base di comportamenti altruistici anche verso sconosciuto e di una fuga ordinata. Le verifiche empiriche del modello dell’affiliazione sociale e quello sull’identità sociale sono ancora scarse. I dati epidemiologici tuttavia mostrano che nelle situazioni di disastro il problema più comune (e la mortalità) non è tanto il panico ma, al contrario, il ritardo nell’evacuazione dei cittadini.

Fonte: Luca Pietrantoni, Gabiele Prati Dipartimento di Scienze dell’educazione – Università degli Studi di Bologna

Bradford 1985

Un esempio di comportamento umano nei confronti dell’incendio è documentato nelle immagini riprese in diretta dell’incendio allo stadio di Bradford. L’11 maggio 1985 al Valley Parade di Bradford nel West Yorkshire, in Inghilterra, avvenne un gravissimo incendio in cui morirono 56 persone e ne rimasero ferite 265.

Sabato 11 maggio 1985 era in programma allo stadio Valley Parade di Bradford l’incontro tra Bradford City e Lincoln City, valido per il campionato di Third Division; dopo 40 minuti di gioco, probabilmente a causa di una sigaretta o un fiammifero, ci fu un primo focolaio nei pressi del settore G dello stadio. L’arbitro avvertito dal guardalinee, sospese subito la partita. La polizia cominciò inizialmente a far evacuare i tifosi presenti nel settore vicino all’incendio, convinti che questo potesse essere domato. La tribuna, costruita nel 1908, aveva un impalcato in legno così come la copertura che era anche rivestita di una tela catramata sigillata con catrame e bitume la quale prese subito fuoco e sciogliendosi andava ad alimentare ulteriormente il fuoco sulle gradinate sottostanti e a generare fumo che limitava la visibilità.

In un paio di minuti le fiamme cominciarono a diffondersi, facendo crollare il tetto dello stadio. I sopravvissuti raccontarono che era quasi impossibile respirare.

Molti spettatori, nel tentativo di scappare, scesero sul terreno di gioco, altri erano riusciti a rifugiarsi nelle case vicine, altri ancora cercarono di aiutare la polizia nel tentativo di salvare qualcuno, ma non c’erano estintori all’interno dello stadio; erano stati tolti per evitare possibili atti di vandalismo tra gli hooligans.

Tra le tribune e il campo era stato eretto un muro per contenere il fenomeno degli hooligans, come nel resto degli stadi inglesi nei primi anni ’80. Fortunatamente il muro non era alto come in altri stadi e la maggior parte degli spettatori riuscì a scavalcarlo e mettersi in salvo nel terreno di gioco. Se il muro fosse stato invalicabile il disastro avrebbe avuto proporzioni ben peggiori.

Dopo 4 minuti il settore interessato dalle fiamme era completamente distrutto.